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Immagine del redattoreFrancesco Criniti

Cos'è la Mindfullness?


Mindfulness significa portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Mindfulness è quindi un processo che coltiva la capacità di portare attenzione al momento presente, consapevolezza e accettazione del momento attuale (Hanh, 1987).

Gli elementi costitutivi della Mindfulness, che emergono dalle definizioni riportate sopra (consapevolezza e attenzione) evidenziano quale sia la finalità della pratica Mindfulness, e quindi la sua tensione etica: l’obiettivo è quello di eliminare la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Secondo la tradizione originaria, la pratica della Mindfulness dovrebbe permettere di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Le origini della mindfulness: la tradizione buddista

Le origini di ricerca della consapevolezza non possono essere ricondotte ad un contesto geografico e temporale preciso, poiché sono rintracciabili, seppure con nomi diversi, in un ampio territorio compreso tra la Cina e la Grecia, in un periodo compreso tra 2800 e 2200 anni fa. Così afferma Amadei (2013) aggiungendo che, in fondo, il monoteismo di Zarathustra in Persia, il Giainismo di Mahavira e Parshva e il Buddhismo in India, il Confucianesimo e il Taoismo in Cina, gli insegnamenti dei profeti ebraici in Palestina e la filosofia greca sono tutte tradizioni che hanno contribuito a mettere a fuoco ‘una pausa di libertà, un respiro profondo che porta con sé una consapevolezza estremamente lucida’ (Amadei, 2013) – in una parola, ciò che oggi in Occidente va sotto il nome di mindfulness.

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La dottrina e la pratica meditativa buddista costituiscono probabilmente la tradizione che più di tutte incarna ed esplicita il tema della consapevolezza. Gli insegnamenti di Buddha, che vano sotto il nome di Dharma, indicano i fattori mentali che consentono all’individuo di cogliere l’essenza e la natura di ciascuna esperienza: l’aspirazione, la fiducia, l’attenzione, la discriminazione e, naturalmente, la consapevolezza. Antiche concettualizzazioni dellamindfulnesspossono essere rintracciate in numerose scritture buddiste come l’Abhidhamma, secondo quanto riportato da Kiyota (1978) e la Vishuddimagga (Buddhaghosa, 1976). Si tratta di testi di filosofia e psicologia buddiste, il particolare il primo costituisce una sorta di compendio di psicologia e filosofia, mentre il secondo ha la natura di un trattato specifico sui temi della meditazione.


Mindfulness originariamente traduce il termine sanscrito sati, di grande ampiezza semantica e difficilmente traducibile con una sola parola. Sati è memoria del presente e presenza mentale, è conoscenza di ciò che accade in campo fenomenologico (Bodhi, 2011). Sati, nella tradizione buddista, è una facoltà che occorre coltivare come strada per giungere alla riduzione delle sofferenze umane, che sono considerate connesse ad una percezione erronea di un io individuale permanente. Superare questa illusione permetterebbe il raggiungimento di un equilibrio emozionale e di un benessere psicologico duraturi.

Per raggiungere tale fine, la tradizione buddista non raccomanda un cambiamento della realtà esterna, quanto piuttosto un mutamento dell’individuo stesso a livello cognitivo ed emotivo, per correggere gli errori che la mente umana commette di frequente quando non sia stata allenata e disciplinata (Gethin, 2001). La via è dunque prima di tutto pratica, fondata su una capacità innata, ma coltivata con disciplina giorno dopo giorno, come riportato negli insegnamenti di Buddha (Gnoli, 2001).

Come sostiene Chiesa (2013) nella prospettiva della tradizione buddista lamindfulness è consapevolezza lucida di ciò che sta accadendo in campo fenomenologico. Lo sviluppo di tale abilità è connesso alle pratiche meditative, sia di tipo concentrativo che di tipo ricettivo. Il praticante deve familiarizzare con entrambe le prospettive, imparando così ad ancorare la mente all’esperienza presente, liberandosi da proiezioni, incomprensioni ed errori. Un’attitudine di accettazione facilita il processo e al tempo stesso ne è una conseguenza.

L’arrivo della mindfulness in Occidente: il lavoro di Kabat-Zinn

Gran parte delle idee, delle pratiche e degli interventi che oggi vanno sotto il nome di mindfulness sono il frutto di un percorso iniziato con gli studi pionieristici di Jon Kabat-Zinn, un biologo e professore della School of Medicine dell’Università del Massachussets che, a partire dal 1979, ha sviluppato un protocollo per introdurre la meditazione di consapevolezza come intervento in contesti clinici.

Era convinzione di Kabat-Zinn, infatti, che la pratica di meditazione avesse il potere di trasformare in modo duraturo l’esperienza individuale della sofferenza e dello stress, offrendo un’alternativa alle strategie orientate alla risoluzione dei problemi che sono profondamente radicate nella cultura occidentale. L’orizzonte teorico in cui è indispensabile inquadrare le intuizioni e le ricerche di Kabat-Zinn, la messa a punto del programma MBSR e la fondazione della Clinica dello stress è quello della medicina mente-corpo. La relazione tra la mente e il corpo, tra i pensieri e la salute, costituisce una premessa fondamentale per comprendere la natura e lo scopo di questo programma.

Nonostante Kabat-Zinn avesse grande esperienza personale di pratica meditativa, la volontà di introdurre la meditazione di consapevolezza in contesti come gli ospedali, le cliniche e i centri sanitari imponeva un’operazione di adattamento delle pratiche tradizionali.

Innanzitutto occorreva che la pratica fosse accessibile alle possibilità psicologiche e fisiche dei pazienti, o comunque facilmente adattabile a condizioni mediche particolari. Questo significava, per esempio, proporre tempi, concentrazione e movimenti compatibili con condizioni di sofferenza di varia natura dei partecipanti. Si è inoltre ritenuto importante evitare pratiche dissonanti rispetto alla cultura e allo stile di vita occidentale, poiché questo avrebbe probabilmente ridotto la volontà di partecipare agli incontri e soprattutto di praticare individualmente tra un incontro e l’altro.

Infine, poiché il protocollo, in questa prima fase, riguardava la realtà ospedaliera, era indispensabile che seguisse degli standard condivisi dalla medicina occidentale e ne rispettasse alcuni principi fondamentali (Giommi, 2014).

Sulla base di queste esigenze, la mindfulness si spogliava delle sue connotazioni spirituali e morali, rinunciava ad essere parte di un cammino per l’illuminazione e si definiva come un’attenzione focalizzata, rivolta al momento presente e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Così facendo, si apriva la possibilità di lavorare con i pazienti difficili attraverso pratiche di consapevolezza al tempo stesso antichissime e adatte al mondo occidentale.

Il primo mindfulness training: il programma MBSR

Il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) nasce dal lavoro di Jon Kabat-Zinn a partire dagli anni Settanta. Il programma di intervento è stato ideato per pazienti affetti da dolore cronico o malattie terminali ma è stato in seguito applicato con successo ad altre condizioni cliniche (fisiche e psicologiche). Il programma originario è stato mantenuto nella sua struttura fondamentale. Sono previsti otto incontri con frequenza settimanale (per un totale di due mesi) della durata di circa due ore e mezza, cui si somma una giornata intensiva di pratica, della durata indicativa di otto ore, nella seconda metà del programma. Il programma prevede una dimensione di gruppo, in genere composto da trenta persone, tra cui due istruttori che abbiano un adeguato profilo professionale e un percorso personale di meditazione alle spalle.

La maggior parte del lavoro che si richiede ai partecipanti deve essere svolto nel corso della settimana, individualmente, con un impegno che si aggira attorno ai 45 minuti al giorno. Verso la metà del programma, gli istruttori propongono ai partecipanti alcuni brevi momenti educativi, nel corso dei quali si riportano risultati significativi rintracciabili in letteratura sul tema dello stress. Questi momenti non costituiscono comunque il fondamento del percorso: l’apprendimento esperienziale risulta l’elemento distintivo e, si potrebbe dire, il cuore del Mindfulness Based Stress Reduction e dei programmi da esso mutuati.

Gli incontri sono costruiti su due elementi principali: da un lato la pratica, dall’altro la cosiddetta inquiry o esplorazione. Tutte le sedute, ad eccezione della prima, iniziano con un momento di pratica, di durata compresa tra 45 minuti e un’ora. Nel corso degli incontri si sperimentano pratiche diverse che i partecipanti seguiranno anche a casa.

Il tempo rimanente è dedicato all’inquiry, cioè alla condivisione delle esperienze vissute nella pratica durante l’incontro o in quella individuale a casa. Gli istruttori guidano questi momenti di riflessione e condivisione, invitando allo scambio e ad un atteggiamento di curiosità e non giudizio. Per tutto il tempo dell’incontro in cui non si è esplicitamente invitati a condividere attraverso la parola, i partecipanti mantengono un atteggiamento di silenzio e stabiliscono un’intenzione di piena presenza.

Per sottolineare l’attitudine differente cui il gruppo si impegna nel corso dell’incontro, l’inizio e la fine delle sedute sono segnate da brevi momenti di raccoglimento utili per demarcare la seduta rispetto al resto della giornata. Il suono dei cimbali scandisce i differenti momenti, ma si tratta di fatto dell’unico elemento di evidente matrice orientale, poiché in genere gli spazi scelti per gli incontri sono piuttosto neutri, arredati unicamente con sedie ed eventualmente tappetini per le pratiche a terra. Gli esercizi si svolgono ascoltando la voce dell’istruttore che guida il partecipante nella pratica; per la meditazione a casa, il gruppo riceve delle registrazioni ogni settimana.

Mindfulness e terapia cognitiva: MBCT

Il successo del Mindfulness Based Stress Reduction ha fatto sì che anche in ambito cognitivista si diffondesse un certo interesse per le pratiche di consapevolezza come strumento clinic. In effetti, mindfulness e cognitivismo avevano, se non altro, un comune interesse per il ruolo che i nostri pensieri giocano su emozioni e comportamenti.

Attorno al nucleo originario del Mindfulness Based Stress Reduction si è quindi sviluppato l’orizzonte più ampio dei cosiddetti Mindfulness Based Interventions(MBIs). Giommi (2014) ha identificato alcune caratteristiche comuni a questi interventi, tra le quali ricordiamo la pratica meditativa, il formato di gruppo, la responsabilità individuale, la quantità consistente di impegno richiesto ai partecipanti, la prospettiva a lungo termine e l’orientamento non finalizzato al risultato. Tra gli interventi derivati dal Mindfulness Based Stress Reduction, la Mindfulness Based Cognitive Therapy è il protocollo più diffuso e testato scientificamente; altre proposte di trattamento basate sulla mindfulness sono la Mindfulness-Based Relapse Prevention per le dipendenze proposta da Bowen, Chawla e Marlatt (2011), il Mindfulness-Based Eating Awarness Training elaborato da Kristeller, Baer e Quillian-Wolever (2006), il Mindfulness-Based Childbirth and Parentingformulato da Bardacke (2013), la Mindfulness-Based Elder Care di McBee (2008) e il programma Mindfulness-Based Relationship Enhancement sviluppato da Carson, Carson, Gil e Baucom (2004).

Secondo la prospettiva degli ideatori della Mindfulness Based Cognitive Therapy(Segal, Teasdale e Williams, 2002), un soggetto che sia stato depresso in passato corre il rischio di un nuovo episodio depressivo perché, in periodi di umore negativo, tende a riattivare in modo automatico pensieri, emozioni e sensazioni che erano attivi durante il periodo di sofferenza. Su questo sfondo, ‘il fine ultimo del programma Mindfulness Based Cognitive Therapy è quello di aiutare gli individui a realizzare una trasformazione radicale nella loro relazione con i pensieri, con le emozioni e con le sensazioni fisiche che possono contribuire alle ricadute depressive‘ (Segal et al., 2013, p. 80). In altre parole, lo scopo è insegnare ai pazienti una nuova relazione con il proprio corpo e le proprie esperienze, che permetta loro di fare un passo indietro rispetto alle risposte automatiche e quindi li protegga da quei circoli viziosi che comportano il rischio di ricadute.

Il pensiero ruminativo che determina l’innesco dei circoli viziosi può essere a sua volta ricondotto ad una modalità di pensiero più ampia, quella cioè del ‘fare’. Come affermano Williams, Teasdale, Segal e Kabat-Zinn (2007), la modalità del fare produce di frequente risultati brillanti come strategia per risolvere problemi e raggiungere obiettivi nel mondo esterno. I problemi sorgono quando si applica la modalità del fare alle questioni legate al sé: in questi casi, infatti, la spinta a fare porta con sé un costante monitoraggio dei risultati. Poiché è molto difficile riuscire a ridurre la discrepanza tra la realtà e ciò che si desidera in tempi brevi, la mente ripete a oltranza queste valutazioni, innescando la ruminazione che poi conduce alle ricadute depressive. Quando la mente segue la spinta a fare, perde il contatto con l’esperienza presente: proprio mentre cerca di affrontare un problema, si allontana dalla soluzione perché non riesce a cogliere i segnali che il corpo invia.

Considerato che questa modalità di pensiero è una risposta frequente alle emozioni che si sperimentano quotidianamente, è possibile cogliere queste occasioni come possibilità di esercizio. La mindfulness propone di sperimentare la modalità dell’essere, che non è uno speciale stato in cui ogni attività cessa, bensì una prospettiva decentrata che consenta di slegarsi dalle consuete modalità di risposta, automatiche e involontarie, che tentano di allontanare lo spiacevole e trattenere il piacevole. La Mindfulness Based Cognitive Therapy, in linea con il programma Mindfulness Based Stress Reduction, coltiva un utilizzo particolare dell’attenzione e della consapevolezza, suggerendo un focus sui processi di pensiero piuttosto che sul contenuto. L’intento non è quello di escludere dalla mente tutti gli stati negativi, ma di evitare che diventino stabili quando si presentano.

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LaMindfulness Based Cognitive Therapyè proposta ad un gruppo di pazienti, in genere una trentina, poiché praticare con gli altri e confrontarsi circa le proprie personali esperienze è considerato dagli autori un elemento fondamentale dell’intervento. Gli incontri sono settimanali, durano circa due ore e alternano momenti di pratica e momenti di indagine su quanto sperimentato (inquiry). Tra un incontro e l’altro i partecipanti sono invitati a svolgere degli esercizi a casa, per alcuni dei quali ricevono delle tracce audio. Pratica formale e pratica informale si alternano sia nel corso delle sedute che a casa. Proprio come il programmaMindfulness Based Stress Reduction, laMindfulness Based Cognitive Therapynon è una psicoterapia, quanto piuttosto una strategia di intervento, un percorso formativo. Esiste però una prima differenza importante: mentre laMindfulness Based Stress Reduction è un protocollo transdiagnostico, a cui partecipano soggetti con diverse condizioni mediche e psicopatologiche, così come persone senza una precisa diagnosi che si sentano stressate o vogliano cambiare qualcosa nel proprio modo di vivere, laMindfulness Based Cognitive Therapyè un programma dedicato a pazienti con esperienza di depressione maggiore.


Sebbene la struttura e i contenuti ricalchino al 90% il programma Mindfulness Based Stress Reduction (Giommi, 2014), si notino alcune peculiarità dovute al legame della Mindfulness Based Cognitive Therapy con la terapia cognitiva. Ad un livello immediato, se si osserva il programma degli otto incontri della Mindfulness Based Cognitive Therapy è possibile rilevare la presenza di alcuni momenti e di alcuni approfondimenti teorici che non sono presenti nel programma di Kabat-Zinn (si rimanda al paragrafo 4.2.2 per un resoconto sulle singole sessioni).

Tracce evidenti dell’orizzonte cognitivista in cui si inserisce il programma sono riscontrabili nella scelta di istituire un colloquio iniziale con il paziente, negli approfondimenti sul tema della depressione, ma anche nell’orientamento all’azione di alcuni aspetti del programma (per esempio, i partecipanti sono invitati a identificare delle azioni che li rassicurino o diano loro piacere e a metterle in atto qualora si presentino sensazioni o emozioni negative). A livello più generale, sembra lecito affermare, riprendendo Crane (2009), che i principali contributi della teoria cognitivista nella messa a punto di questo strumento comprendono una cornice teorica relativa al problema della vulnerabilità alle ricadute, un’ipotesi sull’influenza della mindfulness in questi processi, peraltro in certa misura esplicitati nel lavoro con i pazienti, e un forte legame con la verificabilità empirica.

Mindfulness in età evolutiva

Il contesto scolastico, per le sue caratteristiche strutturali, sembra essere il più adatto per l’implementazione degli interventi basati sulla Mindfulness in età evolutiva, i quali passano la maggior parte del loro tempo a scuola.

Inoltre, aspetto ancor più importante, proprio in tale contesto può realizzarsi l’intento preventivo ed educativo della Mindfulness in età evolutiva: se da un lato, gli interventi basati sulla mindfulness possono aiutare i bambini in difficoltà, dall’altro possono porsi come strumento indispensabile per l’apprendimento delle competenze prosociali, di tolleranza della frustrazione e di promozione della capacità cognitive utili e fruibili da tutti i giovani discenti della società.

Se le pratiche di meditazione in età evolutiva possono essere simili a quelle degli adulti, le modalità e i tempi devono essere differenti. A questo proposito, Fabbro propone, con i bambini più piccoli, di strutturare le sedute di meditazione in modo che siano molto brevi e che si svolgano con una routine invariata nel tempo (Fabbro e Muratori, 2012). Sempre secondo l’autore, gli esercizi devono essere semplici e adeguati alle capacità dei bambini; alla fine della meditazione è opportuno dedicare uno spazio per la condivisione delle esperienze, per poter esprimere le proprie difficoltà e discuterne. Inoltre, a seconda delle varie fasce d’età (5-8, 9-12, 13-18 anni) la letteratura fornisce suggerimenti su tecniche e procedure di meditazione specifiche (Hooker, 2008).

Molto importante, trasversalmente alle diverse tecniche e agli esercizi proposti, è aiutare i bambini a diventare consapevoli delle proprie emozioni (Fabbro e Muratori, 2012).

Uno studio condotto presso la University of British Columbia ha recentemente indagato l’effetto dell’inserimento di alcune semplici pratiche di mindfulness e di esercizi che insegnano a prestare attenzione agli altri all’interno di programmi scolastici volti a favorire lo sviluppo di abilità sociali ed emotive.

Lo studio ha coinvolto ricercatori appartenenti a diverse discipline, dalle neuroscienze, alla pediatra, alla psicologia dello sviluppo e all’ educazione, allo scopo di indagare in modo particolare gli effetti del programma MindUP™, nel corso del quale era previsto l’insegnamento di alcune pratiche di mindfulness, quali pratiche di esperienza sensoriale e pratiche con focus sul corpo e con focus sul respiro, su di un campione costituito da 99 bambini che frequentavano quattro diverse classi del quarto e del quinto grado.

Dallo studio è emerso come i bambini che avevano preso parte a questo programma fossero capaci di mettere in atto strategie di regolazione dello stress più efficaci e si mostravano, inoltre, più ottimisti e collaborativi con gli altri rispetto a bambini loro pari inseriti in un programma simile ma nel corso del quale non era previsto l’insegnamento di alcuna pratica di mindfulness. Rispetto a questi bambini, coloro che erano stati inseriti nel programma MindUP™ mostravano, inoltre, prestazioni scolastiche migliori in matematica.

Sembra che I bambini affetti da ADHD possano trarre particolari benefici dalla pratica di mindfulness, come affermano Van der Oord, Bögels e Peijnenburg (2012). Secondo I dati raccolti dagli autori gli autori gli esercizi di consapevolezza corporea, di sensibilizzazione sensoriale, di respirazione, yoga e meditazione ridurrebbero il comportamento ADHD: al termine del programma i bambini hanno imparato a concentrarsi per migliorare la loro attenzione, la consapevolezza, l’autocontrollo e l’inibizione delle risposte automatiche. Inoltre, essi hanno anche imparato ad applicare la consapevolezza in situazioni difficili, come l’essere distratto a scuola. Accanto al lavoro con I bambini, gli autori hanno proposto alle famiglie un percorso di Mindful Parenting (MP). Grazie a questo training i genitori hanno imparato a essere completamente presenti, in maniera non giudicante, nel qui e ora con il figlio; ad accogliere e rispondere, piuttosto che reagire negativamente di fronte ai suoi comportamenti inadeguati; ad accettare le sue problematicità; e infine a prendersi cura di se stessi. Poter affrontare e superare lo stress, per i genitori, è un traguardo importante perché, a casa, è loro compito incoraggiare i figli a fare meditazione, sia singolarmente sia insieme.

La mindfulness potrebbe risultare un utile strumento anche nella lotta ai disturbi alimentari dei più piccolo. Come testimonia la letteratura scientifica, la pratica di consapevolezza è efficace nell’aumentare l’inibizione e diminuire l’impulsività. Dal momento che l’obesità e i comportamenti alimentari non salutari sono associati ad uno squilibrio tra le connessioni nel cervello che controllano l’inibizione e l’impulso, la mindfulness potrebbe contribuire a trattare o prevenire l’obesità infantile.

Una nuova ricerca condotta alla Vanderbilt University School of Medicine (Chodkowski e Niswender, 2016) suggerisce che ci siano differenze negli equilibri neurali dei cervelli dei bambini normopesi e obesi, che inducono questi ultimi a mangiare troppo. Una perdita di peso stabile è difficile da raggiungere per questi bambini e questo può essere dovuto al fatto che richiede cambiamenti nel funzionamento cerebrale, oltre a cambiamenti di dieta e all’esercizio fisico. Secondo gli autori dello studio un modo per gestire in modo efficare il peso potrebbe essere quello di identificare precocemente i bambini a rischio per l’obesità e utilizzare la mindfulness per controllare l’impulsività a mangiare troppo.

Mindfulness e gravidanza

Durante la gravidanza, lo stress e un basso tono dell’umore possono interferire nella relazione madre-neonato e nello sviluppo del bambino stesso, aumentando in modo considerevole il rischio di disturbi dell’umore post-natali.

Vieten e Astin (2008) mostrano che le mamme che avevano seguito un protocollo Mindfulness Based Stress Reduction standard nel corso della gravidanza, riscontravano dei risultati positivi considerevoli. Il gruppo sperimentale mostrava, infatti, un miglioramento del proprio umore superiore del 20-25% rispetto al gruppo di controllo composto da mamme che non avevano praticato Mindfulness Based Stress Reduction; il miglioramento era riscontrabile soprattutto in una riduzione dell’ansia, riduzione dei sintomi depressivi e un minore stress sperimentato nel periodo post-partum.

Ancora, Beddoe e il suo gruppo di ricerca (2009) hanno dimostrato che la Mindfulness portava a una consistente diminuzione del dolore pelvico che, le donne incinte sperimentano di frequente nei mesi finali della gravidanza. Il dato interessante è che le future mamme che avevano iniziato, nel secondo trimestre di gravidanza il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction, avevano poi nell’ultimo trimestre una netta riduzione dei dolori acuti e cronici nella zona pelvica. Questa riduzione non si rilevava nel gruppo di controllo (composta da donne incinte che non avevano iniziato la Mindfulness Based Stress Reduction) e nel gruppo composto da mamme che invece avevano praticato la Mindfulness Based Stress Reduction solo all’inizio del terzo e ultimo trimestre di gravidanza.

Infine, alcuni lavori (Glover, 2014; Van de Heuvel et al., 2015) suggeriscono che i figli di mamme che hanno manifestato dei disturbi d’ansia nel periodo pre-natale, possono incorrere più facilmente in un ritardo nello sviluppo emotivo. Si stima che il 10-15% di questi neonati avranno poi, nella primissima infanzia, deficit emotivi e comportamentali. Un gruppo di ricerca dell’università olandese di Tilburg in uno studio recente (Van de Heuvel et al., 2015) ha mostrato i benefici della pratica Mindfulnessin questa condizione.

Mindfulness e neuroscienze

Uno dei principi su cui si basa tutto l’apparato concettuale della Mindfulness riguarda l’unione mente/corpo: tale rilevanza è basata ad esempio sulla consapevolezza che il riconoscimento e la descrizione delle sensazioni e delle percezioni del corpo veicolano informazioni riguardo alla sfera cognitivo-emotiva. Non stupisce, quindi, che un ramo della ricerca sia stato espressamente dedicato allo studio dei meccanismi cerebrali che sottendono un orientamento mindful.

Una lettura interessante viene da Siegel, il quale ritiene che alla base di un funzionamento mindful ci sia l’integrazione neurale che influenza e viene influenzata dalla consapevolezza di Mindfulness. Secondo l’autore:

La consapevolezza dell’esperienza che facciamo momento per momento ci dà la possibilità di sentire e accettare direttamente la nostra esperienza mentale. Questo stato di consapevolezza può coinvolgere in uno stato integrato tra varie regioni del cervello, incluse aree importanti della corteccia e le aree subcorticali del sistema limbico e del tronco encefalico. L’integrazione neurale, in parte condotta da queste regioni frontali, può essere essenziale per creare un equilibrio basato sull’autoregolazione. […] Questi percorsi di integrazione possono giocare un ruolo cruciale per il benessere. (D. J. Siegel, 2009).

È possibile, quindi, ritrovare nella meditazione di Mindfulness un’attivazione contemporanea delle aree cerebrali frontali adibite alle capacità esecutive e di allerta, che inizialmente avrebbero la funzione di indirizzare e sostenere l’attenzione, e in seguito quella di sostenere l’intenzione di proseguire nella consapevolezza al momento presente, attraverso l’influenza sui processi decisionali.

Via via che la Mindfulness si è diffusa nel mondo scientifico e psicologico e si è imposta anche all’interno del Cognitivismo, le Neuroscienze hanno iniziato a occuparsene per studiarne gli effetti sul cervello dei praticanti. Le ultime ricerche suggeriscono come la Mindfulness promuova cambiamenti funzionali nel cervello mediante la neuro plasticità.

Haselkamp in uno studio del 2012 conferma questa ipotesi e asserisce che questi cambiamenti nella connettività funzionale siano duraturi nel tempo.

Dimostra infatti come praticanti con molti anni di meditazione siano caratterizzati da una maggiore connettività all’interno delle reti attenzionali e tra queste e le regioni prefrontali mediali. Questi dati secondo Haselkamp causerebbero un maggior sviluppo nei praticanti mindfulness delle abilità cognitive, nel mantenere l’attenzione e nello svincolarsi dalle distrazioni.

Luders nel 2012 ha condotto una ricerca in cui voleva indagare gli effetti cerebrali della meditazione a seconda del numero di anni di pratica. I risultati suggerivano come meditando per molti anni avvenisse un aumento di spessore e un potenziamento dei lobi frontali e in particolare della corteccia prefrontale mediale. Quest’ultima dialoga ricevendo informazioni e dando indicazioni con il cervello emotivo (sistema limbico) e con il più arcaico cervello rettile (rinencefalo), favorendo l’integrazione fra le funzioni esercitate da queste aree. Le modifiche al cervello avvengono per mezzo di cosiddette pieghe corticali dette ‘girificazioni’, ossia la formazione di giri e solchi cerebrali.

I ricercatori ritengono che la formazione di queste pieghe possa promuovere e valorizzare l’elaborazione neurale (Luders , 2012). E più girificazioni si formano più il cervello riesce a lavorare meglio – un’efficienza che si mostra in una migliore elaborazione delle informazioni, facilità nel prendere decisioni e migliore memoria.

Luders nel suo studio aveva dimostrato una correlazione tra gli anni di meditazione e la quantità di piegature corticali formatesi nel tempo: l’osservazione delle scansioni ha mostrato significative differenze in base agli anni di pratica meditativa.

Nello specifico si sono riscontrate maggiori girificazioni nelle persone che praticavano la meditazione, rispetto a coloro che non meditavano.

In più questi solchi corticali erano maggiori con l’aumentare degli anni di pratica meditativa. ‘La correlazione positiva tra la girificazione e il numero di anni di pratica sostiene l’idea che la meditazione aumenta la girificazione regionale del cervello‘, conclude Luders.

Di conseguenza coloro che meditano da più anni tramite una maggior profilatura della corteccia cerebrale sarebbero in grado di trattare più velocemente le informazioni rispetto a chi medita da meno anni e a chi non pratica la meditazione.

Questo è stato confermato da Hauswald che nel 2015 ha trovato ulteriori conferme di come lo spessore corticale sia aumentato per i praticanti di mindfulness.

Questi e altri studi dimostrano come le Neuroscienze utilizzando le loro conoscenze e strumenti come la Risonanza Magnetica e l’Elettroencefalogramma possano chiarire sempre più il ruolo che le pratiche meditative come la Mindfulness possono avere anche sul cervello dei praticanti.

Per raggiungere un livello conoscitivo sempre più elevato in effetti all’interno delle Neuroscienze è nata una branca che si occupa in modo specifico della Mindfulness. Norman Farb in questo senso può essere considerato il capostipite di questo settore delle neuroscienze con il suo contributo ‘Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference‘ del 2007.

Visto che si parla di Rivoluzione Mindfulness è giusto indagare in profondità da un punto di vista sperimentale e scientifico la portata di queste pratiche sull’essere umano.

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